Invecchiare con il gabbiano Jonathan Livingston ● Sinapsi

Quella smania di volare.

Ho un sogno ricorrente, da sempre. Sogno di trovarmi a pancia in giù in mezzo al cielo, come se galleggiassi sul pelo dell’acqua, le braccia spalancate, i polmoni gonfi, gli occhi traboccanti di meraviglia e la gola muta per l’emozione. Sogno di volare. Senza sforzo, senza alcuna fatica, semplicemente aprendo le braccia, sostenuta da misteriose correnti ascensionali che governo spontaneamente, come fosse respirare.

Di notte, ho sorvolato città d’arte affollate, boschi selvaggi e colline, ho planato tranquilla nel sole del primo pomeriggio, ma anche tra gli strascichi violacei di albe e tramonti. Poi al risveglio, mi son trovata a galleggiare nel letto, innumerevoli volte, con la speranza di riassopirmi e continuare il volo, con quel rimasuglio di adrenalina ancora addosso. Ho memoria del mio corpo piccolino da bambina, sveglio ma con gli occhi strizzati, annaspare tra le coperte, cercando disperatamente di rientrare nella fase REM. E poi ricordo di essere cresciuta nel letto, nel sogno, nella vita vera. I voli notturni sono tornati a farmi visita più volte negli anni. Sono cambiati scenari, situazioni climatiche, caratteristiche aerodinamiche delle mie braccia, ma due cose sono rimaste esattamente le stesse: la sensazione fortissima che non si fosse trattato di un sogno e la felicità inspiegabile che permaneva per giorni e giorni, ogni volta.

Con l’adolescenza, sono entrata in quella fase metafisica dell’anima in cui si comincia a farsi domande sulla natura del proprio essere. E’ stato allora che ho letto per la prima volta Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. E’ un libro talmente commentato e recensito (nel bene e nel male) che non ha senso parlarne ancora, se non da un’angolatura soggettiva, per condividerne l’esperienza. Mi sono trovata in mano questa manciata di pagine scritte in modo scandalosamente semplice, accessibile, quella volta ricordo di averlo letto tutto durante un viaggio in macchina da Firenze a Milano. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo e lo buttavo fuori dal finestrino chiuso, in cerca di altre latitudini, di un cielo azzurro oltre la Pianura Padana, per difficile che fosse immaginarselo. Mi lasciò intontita, come se di quel discorso così elementare, mi fosse in realtà sfuggita una parte. Da allora penso di averlo riletto regolarmente ogni due o tre anni e ogni volta ho la sensazione che la storia sia un po’ cambiata, che le parole si rimestino di nascosto tra le pagine, quando io non le guardo; c’è sempre una frase illuminante che non avevo minimamente notato prima. Checché se ne dica, questo minuscolo libro ha qualcosa di magico, pare di non ritrovarlo mai come lo si è lasciato.

Il trucco è semplice. Quando si dice poco, tutto il resto è affidato all’interpretazione personale. Dunque ecco svelata la magia: il libro diventa lo specchio di chi lo legge, dei suoi timori, delle sue provvisorie certezze, dei suoi sogni, della sua esperienza vissuta. Il gabbiano Jonathan Livingston ha la rara capacità di invecchiare insieme al suo lettore, di trovare sempre le parole giuste per consolarlo, a qualunque età.

Anche quest’anno, qualche giorno fa, l’ho voluto rileggere. Ogni volta mi fa sorridere ritrovare le sottolineature, diverse negli anni, e ricordarmi ciò che pensavo, mentre solcavo le pagine con la mina. Mi fa sorridere il ricordo di una me più ingenua, più inesperta, più pura. Anche quest’anno, all’improvviso è saltata fuori una frase che mi pareva di non averci mai letto:

«Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all’ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, vuol dire solo esserci, esser là.»

Ho ripensato per un attimo a questo particolare anno della mia vita. A come andavo forte, all’adrenalina di un lavoro quasi dimenticato, al tempo che non mi avanzava mai. Tra queste poche righe (e intanto, per l’ennesima volta, solco la pagina con la grafite) ho rivisto i miei piedi camminare sullo sterrato, col proprio ritmo, che era il mio e di nessun altro al mondo. Li ho visti sospesi su un ponte tibetano. Ho pensato a come, nel cammino, non stiano mai per terra tutti e due nello stesso momento, al fatto che ogni passo è un atto di fede nei confronti del futuro, un folle numero di equilibrismo che con incosciente ottimismo ripetiamo migliaia di volte al giorno. Ogni passo è, dopotutto, un piccolo volo. E ancora:

«È buffo. Quei gabbiani che non hanno una mèta ideale e che viaggiano solo per viaggiare, non arrivano da nessuna parte, e vanno piano. Quelli invece che aspirano alla perfezione, anche senza intraprendere alcun viaggio, arrivano dovunque, e in un baleno. Ricordati, Jonathan, il paradiso non si trova né nello spazio né nel tempo, poiché lo spazio e il tempo sono privi di senso e valore».

E’ stato chiaro allora, perché mesi fa, all’altro lato del mondo, mi sono quasi commossa davanti alle immagini di Jade Rivera. Con cristallina limpidezza, ho compreso d’un tratto che, per quanto le circostanze a volte ce la mettano tutta, non riusciranno mai a farmi sentire in gabbia. E’ stato ovvio come un respiro, come alzarsi e camminare. Perché io ancora respiro e cammino. E fintanto che ancora respiro, posso anche aprire le braccia e volare.

Penna e scatti di Valentina Duca

Foto copertina cc photo.

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